Disfunzioni di circuito nel disturbo post-traumatico da stress

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XV – 15 settembre 2018.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La necessità di affrontare con efficacia l’emergenza costituita da un gran numero di persone affette da disturbo post-traumatico da stress (PTSD), a seguito dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 che distrusse le torri gemelle del World Trade Center di New York, pose a Douglas Bremner il duplice problema di impiegare le nuove conoscenze sul danno cerebrale da trauma psichico e un nuovo paradigma di approccio, diverso da quello esclusivamente psicologico allora in uso. Un altro aspetto che ha caratterizzato la prima esperienza di intervento su vasta scala che ha studiato i danni dell’ippocampo quale parte integrante della diagnosi, è che le persone affette erano civili esposti a quel singolo episodio e non militari, come nelle casistiche classiche, quali quelle dei veterani della guerra del Vietnam[1]. Bremner e colleghi, accertando danni da stress alle strutture cerebrali implicate nei processi di memoria, secondo quanto emerso dagli studi su animali e indagato da vari altri gruppi di ricerca, hanno posto al centro dell’attenzione tali evidenze neuropatologiche nei “disturbi dello spettro del trauma” e il loro ruolo nell’alterare persistentemente l’assetto funzionale dell’organismo.

La prospettiva introdotta da questo approccio ha inaugurato il filone di indagini sulle disfunzioni dei circuiti cerebrali implicati nella mediazione dei sintomi del PTSD. La riflessione sui disturbi da stress, come occasione per comprendere le basi dei processi alla base dello stabilirsi e del variare di quadri funzionali della mente e dell’intero organismo, è stata oggetto di studi della nostra società scientifica, non pubblicati su questo sito web.

È opportuno ricordare che le tappe della ricerca sulle basi della risposta dell’organismo allo stress è parte integrante della storia della fisiologia, e che le nozioni e i concetti fondamentali emersi da questi studi costituiscono ancora la struttura portante della logica con la quale ci rapportiamo a temi e problemi dell’equilibrio dinamico dell’organismo nel suo ambiente.

Il fisiologo americano Walter Cannon introdusse per la prima volta il concetto di stress biologico in una trattazione scientifica nella seconda decade del Novecento, per indicare l’azione di fattori, eventi o condizioni in grado di superare le capacità dei meccanismi omeostatici, rompendo l’equilibrio dinamico necessario, ad esempio, per conservare la temperatura corporea e i livelli ematici di glucosio entro l’intervallo di valori fisiologici[2]. Cannon studiò la risposta dell’organismo allo stress, quale reazione integrata ed aspecifica in condizioni di emergenza, e la identificò con il processo alla base del comportamento animale istintivo noto come fight or flight reaction[3], descrivendo la redistribuzione del flusso ematico che avviene in questo stato: la riduzione nei distretti cutaneo e splancnico, contrapposta all’aumento della portata a cuore, cervello, organi di senso, polmoni e grandi muscoli, a supporto dell’assetto fisiologico che consente all’animale di reagire efficacemente ad una minaccia per la vita. Perrella nota, in proposito, come la comparsa nella filogenesi del sistema nervoso “abbia consentito a singoli individui di una specie di rispondere individualmente ed immediatamente ad una minaccia per l’incolumità, scegliendo se eliminare l’origine individuata con i sensi, attaccandola, o sottrarsi alla circostanza, fuggendo”[4].

Il fisiologo americano “rimuoveva la corteccia cerebrale nel gatto e ne studiava le conseguenze in termini di fisiologia sistemica e di comportamento dell’animale. In tali condizioni rilevò un aumento delle reazioni di paura a situazioni potenzialmente minacciose, o semplicemente nuove, accompagnate da attivazione adrenergica, con aumento della pressione sanguigna, sudorazione, piloerezione ed aumentata secrezione di adrenalina surrenalica. Definì questa reazione “sham rage” – di solito tradotta nei testi di fisiologia italiani con “rabbia fittizia”, ma sarebbe più giusto definirla “rabbia artificiale” in quanto conseguenza di asportazione della corteccia cerebrale – e propose l’ipotesi che una serie di strutture poste sopra il Mesencefalo fossero implicate nella genesi delle emozioni; in particolare indicò l’Ipotalamo, il Talamo, l’Ippocampo ed il Giro del Cingolo”[5].

“Nel corso dei suoi esperimenti il fisiologo ebbe anche modo di testare l’effetto di stimoli psichici in grado di evocare risposte affettivo-emotive nell’animale. I risultati di questa ricerca gli consentirono di dimostrare, per primo, che diverse condizioni agenti direttamente sulla psiche dell’animale, senza il condizionamento del dolore fisico, nel provocare rabbia o paura scatenavano un’identica reazione simpato-adreno-midollare. Questa osservazione cruciale lo condusse alla formulazione di un principio, purtroppo spesso trascurato nei decenni successivi[6]: “al pari di una omeostasi organica esiste una omeostasi psichica la cui perturbazione provoca le stesse modificazioni periferiche che si osservano quando l’organismo viene sottoposto a stress di natura fisica”[7].

Dieci anni dopo la pubblicazione della teoria di Cannon, il neuroanatomista Papez ipotizza un’elaborazione in sequenza delle emozioni da parte di un circuito con punto di partenza e di arrivo nell’ipotalamo, ed esteso a tutte le strutture del lobo limbico, ossia il Circuito di Papez[8]. Sicuramente suggestiva, oggi questa ipotesi ci appare ingenua e infondata. In quello stesso periodo, Kluver e Bucy stabilirono un rapporto tra memoria ed emozioni asportando nelle scimmie parti estese del lobo temporale. Queste scimmie sembravano prive di paura e risposte emozionali, ma non riconoscevano più oggetti a loro familiari e perfino il cibo[9].

Nel decennio successivo, McLean, sintetizzando gli studi di Papez e quelli di Kluver e Bucy, denominò cervello viscerale il rinencefalo dei mammiferi inferiori; ma, soprattutto, introdusse l’amigdala, il setto e la corteccia prefrontale nella descrizione sistematica del cervello emozionale, adottando nella fisiologia delle emozioni la definizione di lobo limbico[10].

Il medico ungherese Hans Selye, considerato dai ricercatori del suo tempo il massimo esperto di effetti dello stress sull’organismo, pubblicò i primi risultati delle sue ricerche nel 1936 sulla rivista Nature: definì la risposta dell’intero organismo a fattori o condizioni stressanti sindrome generale di adattamento, sottolineando la partecipazione globale ad un assetto fisiologico dal significato di difesa efficace ad adattare l’animale a circostanze minacciose, estreme o traumatiche. In questa “sindrome” Selye distingue una iniziale reazione di allarme da una fase di resistenza successiva. Il contributo più importante del ricercatore ungherese consiste nella scoperta dell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con la produzione di glucocorticoidi (cortisolo nella specie umana) per azione dell’ACTH, a sua volta stimolato dall’ipotalamo. Comprendendo le potenzialità patogene dell’attivazione protratta di questa via neuroendocrina, inizialmente attivata a fini adattativi, Selye considerò “malattie dell’adattamento” la maggior parte dei disturbi psichici e psicosomatici.

È opportuno rilevare che “Selye conferisce al termine stress un nuovo valore semantico, definendolo come la somma di tutte le modificazioni indotte da ogni impegno fisico o psicologico in grado di provocare la sindrome generale di adattamento[11]. Quindi, mentre Cannon identificava lo stress con gli agenti stressanti (stressors), per Selye lo stress era costituito dalla risposta che questi inducono nell’organismo e, in ultima analisi, dalla stessa sindrome di adattamento. In estrema sintesi, si può dire che a Cannon dobbiamo la scoperta dell’attivazione del sistema simpato-adreno-midollare e a Selye quella dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene[12].

Tutti gli studi successivi hanno preso le mosse dalla base fisiologica individuata da Cannon e Selye.

La concezione attuale è stata così esposta in sintesi: “Oggi definiamo lo stress come uno stato di disarmonia o di alterata omeostasi che può essere provocato da vari fattori di natura fisica e/o psichica (agenti stressanti o stressors) e al quale l’organismo reagisce specificamente attivando una serie di meccanismi fisiologici di natura neuroendocrina (sistema dello stress) che innescano e/o modulano una serie di funzioni fisiche e comportamentali (risposte adattative), aventi lo scopo di adattare l’organismo alla nuova condizione e di ripristinare l’omeostasi iniziale”[13].

Fra i meccanismi di sistema ritenuti responsabili della patogenesi dei sintomi del PTSD, quale esito patologico di stati protratti di alterata omeostasi, vi è quello che implica l’intervento del locus coeruleus. In sintesi: eventi stressanti o minacciosi, riconosciuti ed elaborati dalla corteccia cerebrale, raggiungono l’amigdala, che può essere attivata anche da evocazioni o stimoli elaborati inconsciamente; l’amigdala rilascia il CRH che attiva la produzione simpatico-midollare di adrenalina e stimola l’asse ACTH-cortisolo, preparando l’organismo alla fuga o all’attacco. Se lo stress perdura o è molto intenso, il cortisolo attiva il locus coeruleus che, mediante la noradrenalina, stimola l’amigdala a produrre CRH, innescando il circolo vizioso ritenuto responsabile della patogenesi[14].

Dopo aver ripercorso le tappe salienti della ricerca sulla fisiologia della risposta allo stress, è interessante considerare, sia pure in estrema sintesi, l’evoluzione della concezione in medicina e in psichiatria della patologia da stress.

Nel 1871, durante la guerra civile americana, Da Costa descrisse in soldati esposti allo stress del combattimento una sindrome caratterizzata da spossatezza, irritabilità, costante stato di allerta, elevata frequenza cardiaca ed accentuazione generalizzata delle risposte fisiologiche. Il medico americano studiò le manifestazioni cardiovascolari, consistenti nell’aumento della forza di contrazione cardiaca associato a tachiaritmie ed innalzamento della pressione arteriosa, rendendosi conto dell’origine non cardiologica di questi segni[15]. Da Costa definì questo quadro clinico soldier’s irritable heart (cuore irritabile del soldato) e lo considerò parte di una sindrome di attivazione dell’intero organismo, alla cui origine riconobbe lo stato psichico determinato da paura e tensione estreme[16]. Si tratta della prima formulazione nosografica di un disturbo da stress, denominato con l’eponimo Da Costa’s Syndrome[17].

Kraepelin, pioniere della nosografia psichiatrica, descrisse una sindrome da trauma psichico con il nome di schreckneurose, reso in inglese con fright neurosis, letteralmente “nevrosi da spavento”[18]. Freud, la cui elaborazione teorica degli effetti delle esperienze traumatiche esulerebbe dai limiti di questa sintesi, consultato nel 1915 circa il crescente numero di vittime della tensione e dell’angoscia causate dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale, propose la diagnosi di Kriegneurose, ossia “nevrosi di guerra”, attribuendone la causa al conflitto che si determina fra l’impulso di fuggire e il dovere di combattere. Numerosi autori descrissero sintomi psichici causati dal trauma bellico, prevalentemente espressi come disturbi della memoria ed interpretati su base dissociativa: dimenticanza del proprio nome sul campo di battaglia, amnesia per dati personali ed eventi gravi appena accaduti, fino a stati stuporosi con amnesia globale. Accanto a tremori intrattabili ed ansia intensa, altri psichiatri riportarono sintomi simili a quelli dell’isteria di conversione della nosografia dell’epoca, ossia paralisi (pseudoparalisi), mutismo e cecità temporanee[19]. In assenza di fattori eziologici cerebrali riconoscibili che giustificassero queste manifestazioni cliniche, i fautori di una visione neurologistica conclusero che il cervello subisse danni concussivi dalle esplosioni ravvicinate, e tali danni fossero responsabili dei sintomi. Per questo tali sindromi furono denominate Shell Shock o Shock da bombardamento (to shell = bombardare). Nello stesso periodo, Pierre Janet ipotizzò che condizioni estreme o eventi traumatici fossero in grado di determinare una scissione della coscienza tale che la vita mentale potesse avere due processi paralleli operanti fianco a fianco, ciascuno dei quali poteva essere o meno consapevole dell’altro. Lo psichiatra francese osservò pazienti che presentavano sintomi quali vedere “come se fossero in un tunnel” o senza colore, che avevano pause psichiche o si sentivano come se fossero in un sogno, ovvero manifestazioni che oggi descriveremmo come dissociazione da stress[20]. Ricordiamo che Janet fornì la prima teoria della dissociazione, secondo una patogenesi perfettamente coerente con le più avanzate conoscenze di neurofisiologia dell’epoca.

Lo studio delle nevrosi di guerra e dello Shell Shock riconosce una causa acuta alle amnesie sul campo di battaglia, ma analizza anche il perdurare dei sintomi, spesso considerato un effetto di affaticamento del sistema nervoso. Infatti, Mott ed altri introducono la categoria nosografica della Combat Fatigue o affaticamento da combattimento[21].

Kardiner e Spiegel (1930-38) interpretano i disturbi presentati a distanza di tempo dai veterani della I Guerra Mondiale come il “perdurare della rottura delle funzioni egoiche”[22] espresse in una psiconevrosi, negando di fatto l’esistenza di patologia cronica da stress. Sargent e Slater (1941) studiano le sindromi amnesiche da guerra; Torrie studia la patologia psicosomatica da stress. Nel 1945 Grinkel e Spiegel, che avevano introdotto la definizione di Combat Neuroses, pubblicano un volume che rimarrà per decenni una pietra miliare nello studio degli effetti psicologici delle esperienze ansiogene e degli eventi traumatici: Men Under Stress[23]. La focalizzazione sull’eccesso di adrenalina all’origine di segni e sintomi porta gli autori a suggerire nei casi più gravi la rimozione chirurgica delle ghiandole surrenaliche.

La prima descrizione esaustiva di sindrome da stress cronico si attribuisce ad Eitinger che, in uno studio condotto dal 1948 al 1965 sui sopravvissuti dei campi di concentramento nazisti, definisce la Concentration Camp Syndrome[24].

Le difficoltà nello sviluppo di una nosografia di riferimento per la diagnosi dei disturbi da stress in assenza di precisi elementi di patogenesi dei sintomi sono riflesse nel Manuale Diagnostico e Statistico dell’American Psychiatric Association (DSM) che, nella prima edizione del 1952, includeva la gross stress reaction – probabilmente sotto l’influenza della casistica legata agli eventi bellici – mentre nella seconda edizione del 1968 non riportava più questa diagnosi. Ma le problematiche legate alla sintomatologia post-traumatica ritornarono di attualità con lo studio dei reduci dalla guerra del Vietnam. Osservando questi pazienti, Lawrence Kolb descrisse la startle response, consistente nel sussultare per comuni suoni e rumori ambientali, e la attribuì agli elevati tassi di noradrenalina presenti nei reduci afflitti da una sintomatologia cronica. In questo periodo sono state elaborate le principali teorie dello stress: la residual stress theory, la stress sensitization theory e la stress inoculation theory.

Nel suo influente lavoro, Charles Figley (1978) sostenne che lo stress della guerra fosse in grado di determinare psicopatologia da stress virtualmente in ogni persona esposta, senza la necessità di una personalità premorbosa[25]. In questa temperie psicopatologica, nel 1980 si introdusse nel DSM III il PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) quale disturbo indipendente nelle due varietà, acuto e cronico.

Nei primi anni la diagnosi era posta raramente, anche per la definizione di trauma inclusa nel “Criterio A”: “Evento al di là del normale spettro dell’esperienza umana”. Nelle versioni successive si corregge questo limite: “Evento con minaccia per la vita od altro (evento) significativo accompagnato da estrema paura, orrore o sconforto”[26].

Una parte considerevole delle conoscenze cliniche ed epidemiologiche sul PTSD di cui oggi possiamo disporre si devono agli studi di Richard Mollica, tra i fondatori nel 1981 dell’Harvard Program in Refugee Trauma, e dei gruppi di psichiatri che fanno capo alla sua scuola. Fondamentale il contributo derivato dallo studio nel più grande campo di rifugiati cambogiani nel 1988.

Nel 1994 fu introdotto, come parte del DSM IV, l’Acute Stress Disorder (ASD) che, a differenza del PTSD, prevede una durata della sindrome inferiore a un mese.

Il riferimento nosografico ha facilitato lo studio degli effetti sull’encefalo dello stato di attivazione da stress di lungo periodo nella nostra specie, con il lavoro di Bremner e colleghi che ha inaugurato un metodo basato sull’osservazione mediante risonanza magnetica nucleare (RMN), divenuto poi un approccio standard. Il team dello psichiatra americano confrontò un gruppo di veterani affetti da PTSD con un gruppo di controllo equivalente, rilevando che le persone affette dal disturbo presentavano in media un volume dell’ippocampo di destra inferiore dell’8%, con un deficit di memoria direttamente proporzionale alla perdita di tessuto nervoso ippocampale. Lo studio, condotto nel 1995, documentò per la prima volta un danno da stress nel cervello umano.

Negli anni seguenti ha progressivamente preso forma la ricerca contemporanea sulla neuropatologia associata al PTSD.

(Fenster R. J., et al. Brain circuit dysfunction in post-traumatic stress disorder: from mouse to man. Nature Reviews Neuroscience - Epub ahead of print doi: 10.1038/s41583-018-0039-7, 2018).

La provenienza degli autori è la seguente: Division of Depression and Anxiety Disorders, McLean Hospital Department of Psychiatry, Harvard Medical School, Belmont, Massachusetts (USA).

Accanto all’episodica efficacia di alcune terapie, è documentata per il PTSD l’esistenza di una percentuale elevata di casi che non trova giovamento con i trattamenti standard o va incontro a remissioni solo parziali e temporanee dei sintomi più invalidanti, di fatto entrando in una dimensione cronica dello stato di alterazione dei sistemi neuroendocrini e, più in generale, della fisiologia dell’organismo. Si giustifica, pertanto, l’intensità degli studi sulla neuropatologia del disturbo e sui vari aspetti della sua espressione clinica. Infatti, al di là di propagandate e indimostrate soluzioni per tutti i disturbi d’ansia e da stress da parte di professionisti ed istituti che si autopromuovono come specializzati in questi trattamenti, la realtà è che gli psichiatri attendono, come sottolineano Robert J. Fenster e colleghi, nuovi approcci di intervento, trattamento e prevenzione.

Come si legge nell’articolo qui recensito, la ricerca negli ultimi anni ha rapidamente sviluppato una maggiore conoscenza dei circuiti cerebrali implicati nella fisiopatologia del PTSD, consentendo un progresso nella comprensione delle basi neuropatologiche della sindrome. Tale risultato è stato possibile grazie a innovazioni tecnologiche che hanno consentito l’osservazione e la perturbazione di macrocircuiti e microcircuiti ritenuti essenziali per la produzione dei sintomi caratteristici e delle manifestazioni cliniche associate.

La più dettagliata conoscenza delle basi neurobiologiche di questo invalidante disturbo – per i cui dettagli si rinvia alla lettura del testo integrale della rassegna – ha consentito di acquisire elementi utili per una migliore comprensione clinica (translational knowledge) del PTSD. Infatti, tali studi hanno fornito nuove nozioni e dati circa i meccanismi del rischio e della resistenza e stanno aprendo nuove vie per le tanto attese scoperte che potranno mutare radicalmente la terapia, permettendo di giungere ad elevati standard di efficacia per la massima parte dei casi, se non per tutte le persone affette.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-15 settembre 2018

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Gli studi classici includevano reduci della II Guerra Mondiale, della Guerra del Vietnam, della Guerra del Golfo, ecc. Tra i primi studi di vasta scala su civili vi furono quelli condotti da Richard Mollica e colleghi di Harvard sui rifugiati cambogiani. In precedenza, sono stati pubblicati in genere singoli casi di superstiti di disastri ferroviari o altre calamità.

[2] I cenni storici e le nozioni sulla fisiologia dello stress esposti da qui in avanti sono tratti da G. Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), Dipartimento di Neuroscienze, Università Federico II, Napoli 2005.

[3] Resa in italiano con “reazione di attacco o fuga” (lett.: lotta o fuga).

[4] G. Perrella, op. cit., p. 4.

[5] G. Perrella, op. cit., p. 5. Cfr. W. B. Cannon, The James-Lange theory of emotions: A critical reappraisal and an alternative theory. American Journal of Psychology 39, 106-124, 1927.

[6] Mai completamente assimilato nella cultura generale, questo principio consente di equiparare il malessere soggettivo (illness) che accompagna le malattie psicogene a quello della patologia ad etiologia organica.

[7] G. Perrella, op. cit., p. 6. La citazione di Walter Cannon è ripresa da A. Calogero e M. C. Serra, Lo Stress, p. 12, Quaderni di Patologia Generale, Piccin, Padova 1999.

[8] J. W. Papez, A proposed mechanism of emotion. American Medical Association Archives of Neurology and Psychiatry 38,725-743, 1937.

[9] H. Kluver & P. C. Bucy, “Psychic blindness” and other symptoms following bilateral temporal lobectomy in rhesus monkeys. American Journal of Psychiatry 119, 352-353, 1937. Cit. in G. Perrella, op. cit., p. 8.

[10] P. D. McLean, Psychosomatic disease and the visceral brain. Recent developments bearing on the Papez Theory of Emotion. Psychosomatic Medicine 11, 338-353, 1949.

[11] Cfr. A. Calogero e M. C. Serra, op. cit., p. 13; H. Selye, The general adaptation syndrome and the diseases adaptation. Journal of Clinical Endocrinology 6, 117-196, 1946.

[12] G. Perrella, op. cit., p. 11.  

[13] G. Perrella, op. cit., p. 11. Si descrivono una risposta centrale ed una periferica. La centrale è caratterizzata dall’aumento della vigilanza nello stato di veglia e dall’allerta, fino all’allarme vero e proprio, con accentuazione dell’attenzione scopica, perlustrativa ed esplorativa, associato ad incremento della capacità recettiva con eretismo estesico; inoltre, si ha un miglioramento della memoria impressiva. La risposta periferica include le modificazioni fisiologiche neurovegetative che interessano i sistemi endocrino, respiratorio, cardio-circolatorio, gastroenterico, tegumentale, con le azioni visceroeffettrici ghiandolari, incluse quelle interessanti le ghiandole sudoripare (sudorazione adrenergica).

[14] Ricordato anche nella nostra rubrica “Alfabeta” e citato in numerose note, è riportato ne Il locus coeruleus rivisitato in “Note e Notizie” del 9 aprile 2016.

[15] Cfr. G. Perrella, op. cit., pp. 13-14.

[16] J. M. Da Costa, On irritable heart: A clinical study of a form of functional cardiac disorder and its consequences. American Journal of Medical Science 161, 17-52, 1871.

[17] J. D. Bremner, Does Stress Damage The Brain?, p. 71, Norton, New York 2002.

[18] G. Perrella, op. cit., p.14.

[19] G. Perrella, op. cit., p.15.

 

[20] G. Perrella, op. cit., p.17.

 

[21] F. W. Mott, War Neuroses and Shell Shock. Oxford University Press, London 1919.

[22] Cit. in Lawrence C. Kolb, Psichiatria Clinica, p. 704, Idelson, Napoli 1979.

[23] Grinkel R. R. & Spiegel J. P., Men Under Stress. Blackiston, Philadelphia 1945.

[24] G. Perrella, op. cit., p.19.

[25] Charles Figley cit. in G. Perrella, op. cit., p.26.

[26] G. Perrella, op. cit., p.28.