Disfunzioni di circuito nel disturbo
post-traumatico da stress
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XV – 15 settembre
2018.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la
sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La
necessità di affrontare con efficacia l’emergenza costituita da un gran numero
di persone affette da disturbo post-traumatico da stress (PTSD), a seguito dell’attacco terroristico dell’11
settembre 2001 che distrusse le torri gemelle del World Trade Center di New
York, pose a Douglas Bremner il duplice problema di impiegare le nuove
conoscenze sul danno cerebrale da trauma psichico e un nuovo paradigma di
approccio, diverso da quello esclusivamente psicologico allora in uso. Un altro
aspetto che ha caratterizzato la prima esperienza di intervento su vasta scala
che ha studiato i danni dell’ippocampo quale parte integrante della diagnosi, è
che le persone affette erano civili esposti a quel singolo episodio e non
militari, come nelle casistiche classiche, quali quelle dei veterani della guerra
del Vietnam[1]. Bremner e colleghi, accertando danni da stress alle strutture cerebrali
implicate nei processi di memoria, secondo quanto emerso dagli studi su animali
e indagato da vari altri gruppi di ricerca, hanno posto al centro
dell’attenzione tali evidenze neuropatologiche nei “disturbi dello spettro del
trauma” e il loro ruolo nell’alterare persistentemente l’assetto funzionale
dell’organismo.
La
prospettiva introdotta da questo approccio ha inaugurato il filone di indagini sulle
disfunzioni dei circuiti cerebrali implicati nella mediazione dei sintomi del PTSD.
La riflessione sui disturbi da stress,
come occasione per comprendere le basi dei processi alla base dello stabilirsi
e del variare di quadri funzionali della mente e dell’intero organismo, è stata
oggetto di studi della nostra società scientifica, non pubblicati su questo
sito web.
È
opportuno ricordare che le tappe della ricerca sulle basi della risposta
dell’organismo allo stress è parte
integrante della storia della fisiologia, e che le nozioni e i concetti
fondamentali emersi da questi studi costituiscono ancora la struttura portante
della logica con la quale ci rapportiamo a temi e problemi dell’equilibrio
dinamico dell’organismo nel suo ambiente.
Il
fisiologo americano Walter Cannon introdusse per la prima volta il concetto di stress biologico in una trattazione
scientifica nella seconda decade del Novecento, per indicare l’azione di
fattori, eventi o condizioni in grado di superare le capacità dei meccanismi omeostatici, rompendo
l’equilibrio dinamico necessario, ad esempio, per conservare la temperatura
corporea e i livelli ematici di glucosio entro l’intervallo di valori
fisiologici[2]. Cannon studiò la risposta dell’organismo allo stress, quale reazione integrata ed
aspecifica in condizioni di emergenza, e la identificò con il processo alla
base del comportamento animale istintivo noto come fight or flight reaction[3], descrivendo la redistribuzione del flusso
ematico che avviene in questo stato: la riduzione nei distretti cutaneo e
splancnico, contrapposta all’aumento della portata a cuore, cervello, organi di
senso, polmoni e grandi muscoli, a supporto dell’assetto fisiologico che
consente all’animale di reagire efficacemente ad una minaccia per la vita.
Perrella nota, in proposito, come la comparsa nella filogenesi del sistema
nervoso “abbia consentito a singoli individui di una specie di rispondere
individualmente ed immediatamente ad una minaccia per l’incolumità, scegliendo
se eliminare l’origine individuata
con i sensi, attaccandola, o sottrarsi alla circostanza,
fuggendo”[4].
Il
fisiologo americano “rimuoveva la corteccia cerebrale nel gatto e ne studiava
le conseguenze in termini di fisiologia sistemica e di comportamento
dell’animale. In tali condizioni rilevò un aumento delle reazioni di paura a
situazioni potenzialmente minacciose, o semplicemente nuove, accompagnate da
attivazione adrenergica, con aumento della pressione sanguigna, sudorazione,
piloerezione ed aumentata secrezione di adrenalina surrenalica. Definì questa
reazione “sham rage” – di solito tradotta nei testi di fisiologia italiani con
“rabbia fittizia”, ma sarebbe più giusto definirla “rabbia artificiale” in
quanto conseguenza di asportazione della corteccia cerebrale – e propose
l’ipotesi che una serie di strutture poste sopra il Mesencefalo fossero
implicate nella genesi delle emozioni; in particolare indicò l’Ipotalamo, il
Talamo, l’Ippocampo ed il Giro del Cingolo”[5].
“Nel corso
dei suoi esperimenti il fisiologo ebbe anche modo di testare l’effetto di
stimoli psichici in grado di evocare risposte affettivo-emotive nell’animale. I
risultati di questa ricerca gli consentirono di dimostrare, per primo, che
diverse condizioni agenti direttamente sulla psiche dell’animale, senza il
condizionamento del dolore fisico, nel provocare rabbia o paura scatenavano
un’identica reazione simpato-adreno-midollare. Questa osservazione cruciale lo
condusse alla formulazione di un principio, purtroppo spesso trascurato nei
decenni successivi[6]: “al pari di una omeostasi organica esiste una
omeostasi psichica la cui perturbazione provoca le stesse modificazioni
periferiche che si osservano quando l’organismo viene sottoposto a stress di natura fisica”[7].
Dieci anni
dopo la pubblicazione della teoria di Cannon, il neuroanatomista Papez ipotizza
un’elaborazione in sequenza delle emozioni da parte di un circuito con punto di
partenza e di arrivo nell’ipotalamo, ed esteso a tutte le strutture del lobo
limbico, ossia il Circuito di Papez[8]. Sicuramente suggestiva, oggi questa ipotesi ci
appare ingenua e infondata. In quello stesso periodo, Kluver e Bucy stabilirono
un rapporto tra memoria ed emozioni asportando nelle scimmie parti estese del
lobo temporale. Queste scimmie sembravano prive di paura e risposte emozionali,
ma non riconoscevano più oggetti a loro familiari e perfino il cibo[9].
Nel
decennio successivo, McLean, sintetizzando gli studi di Papez e quelli di
Kluver e Bucy, denominò cervello
viscerale il rinencefalo dei
mammiferi inferiori; ma, soprattutto, introdusse l’amigdala, il setto e la corteccia prefrontale nella descrizione
sistematica del cervello emozionale, adottando nella fisiologia delle emozioni
la definizione di lobo limbico[10].
Il medico
ungherese Hans Selye, considerato dai ricercatori del suo tempo il massimo
esperto di effetti dello stress
sull’organismo, pubblicò i primi risultati delle sue ricerche nel 1936 sulla
rivista Nature: definì la risposta
dell’intero organismo a fattori o condizioni stressanti sindrome generale di adattamento, sottolineando la partecipazione
globale ad un assetto fisiologico dal significato di difesa efficace ad adattare
l’animale a circostanze minacciose, estreme o traumatiche. In questa “sindrome”
Selye distingue una iniziale reazione di
allarme da una fase di resistenza
successiva. Il contributo più importante del ricercatore ungherese consiste
nella scoperta dell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con la
produzione di glucocorticoidi (cortisolo nella specie umana) per azione
dell’ACTH, a sua volta stimolato dall’ipotalamo. Comprendendo le potenzialità
patogene dell’attivazione protratta di questa via neuroendocrina, inizialmente
attivata a fini adattativi, Selye considerò “malattie dell’adattamento” la
maggior parte dei disturbi psichici e psicosomatici.
È
opportuno rilevare che “Selye conferisce al termine stress un nuovo valore semantico, definendolo come la somma di
tutte le modificazioni indotte da ogni impegno fisico o psicologico in grado di
provocare la sindrome generale di adattamento[11]. Quindi, mentre Cannon identificava lo stress con gli agenti stressanti (stressors), per Selye lo stress era costituito dalla risposta che
questi inducono nell’organismo e, in ultima analisi, dalla stessa sindrome di
adattamento. In estrema sintesi, si può dire che a Cannon dobbiamo la scoperta
dell’attivazione del sistema simpato-adreno-midollare
e a Selye quella dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene”[12].
Tutti gli
studi successivi hanno preso le mosse dalla base fisiologica individuata da
Cannon e Selye.
La
concezione attuale è stata così esposta in sintesi: “Oggi definiamo lo stress come uno stato di disarmonia o di
alterata omeostasi che può essere provocato da vari fattori di natura fisica
e/o psichica (agenti stressanti o stressors)
e al quale l’organismo reagisce specificamente attivando una serie di
meccanismi fisiologici di natura neuroendocrina (sistema dello stress) che innescano e/o modulano una
serie di funzioni fisiche e comportamentali (risposte adattative), aventi lo scopo di adattare l’organismo alla
nuova condizione e di ripristinare l’omeostasi iniziale”[13].
Fra i
meccanismi di sistema ritenuti responsabili della patogenesi dei sintomi del
PTSD, quale esito patologico di stati protratti di alterata omeostasi, vi è
quello che implica l’intervento del locus
coeruleus. In sintesi: eventi stressanti o minacciosi, riconosciuti ed
elaborati dalla corteccia cerebrale, raggiungono l’amigdala, che può essere
attivata anche da evocazioni o stimoli elaborati inconsciamente; l’amigdala
rilascia il CRH che attiva la produzione simpatico-midollare di adrenalina e
stimola l’asse ACTH-cortisolo, preparando l’organismo alla fuga o all’attacco.
Se lo stress perdura o è molto
intenso, il cortisolo attiva il locus
coeruleus che, mediante la noradrenalina, stimola l’amigdala a produrre
CRH, innescando il circolo vizioso ritenuto responsabile della patogenesi[14].
Dopo aver
ripercorso le tappe salienti della ricerca sulla fisiologia della risposta allo
stress, è interessante considerare,
sia pure in estrema sintesi, l’evoluzione della concezione in medicina e in
psichiatria della patologia da stress.
Nel 1871,
durante la guerra civile americana, Da Costa descrisse in soldati esposti allo stress del combattimento una sindrome
caratterizzata da spossatezza, irritabilità, costante stato di allerta, elevata
frequenza cardiaca ed accentuazione generalizzata delle risposte fisiologiche.
Il medico americano studiò le manifestazioni cardiovascolari, consistenti
nell’aumento della forza di contrazione cardiaca associato a tachiaritmie ed
innalzamento della pressione arteriosa, rendendosi conto dell’origine non
cardiologica di questi segni[15]. Da Costa definì questo quadro clinico soldier’s irritable heart (cuore
irritabile del soldato) e lo considerò parte di una sindrome di attivazione dell’intero
organismo, alla cui origine riconobbe lo stato psichico determinato da paura e
tensione estreme[16]. Si tratta della prima formulazione nosografica
di un disturbo da stress, denominato
con l’eponimo Da Costa’s Syndrome[17].
Kraepelin, pioniere
della nosografia psichiatrica, descrisse una sindrome da trauma psichico con il
nome di schreckneurose,
reso in inglese con fright neurosis,
letteralmente “nevrosi da spavento”[18]. Freud, la cui elaborazione teorica degli
effetti delle esperienze traumatiche esulerebbe dai limiti di questa sintesi,
consultato nel 1915 circa il crescente numero di vittime della tensione e
dell’angoscia causate dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale, propose la
diagnosi di Kriegneurose,
ossia “nevrosi di guerra”, attribuendone la causa al conflitto che si determina
fra l’impulso di fuggire e il dovere di combattere. Numerosi autori descrissero
sintomi psichici causati dal trauma bellico, prevalentemente espressi come
disturbi della memoria ed interpretati su base dissociativa: dimenticanza del
proprio nome sul campo di battaglia, amnesia per dati personali ed eventi gravi
appena accaduti, fino a stati stuporosi con amnesia globale. Accanto a tremori
intrattabili ed ansia intensa, altri psichiatri riportarono sintomi simili a
quelli dell’isteria di conversione
della nosografia dell’epoca, ossia paralisi (pseudoparalisi), mutismo e cecità
temporanee[19]. In assenza di fattori eziologici cerebrali
riconoscibili che giustificassero queste manifestazioni cliniche, i fautori di
una visione neurologistica conclusero che il cervello subisse danni concussivi
dalle esplosioni ravvicinate, e tali danni fossero responsabili dei sintomi.
Per questo tali sindromi furono denominate Shell
Shock o Shock da bombardamento (to shell = bombardare). Nello stesso
periodo, Pierre Janet ipotizzò che condizioni estreme o eventi traumatici
fossero in grado di determinare una scissione della coscienza tale che la vita
mentale potesse avere due processi paralleli operanti fianco a fianco, ciascuno
dei quali poteva essere o meno consapevole dell’altro. Lo psichiatra francese
osservò pazienti che presentavano sintomi quali vedere “come se fossero in un
tunnel” o senza colore, che avevano pause psichiche o si sentivano come se
fossero in un sogno, ovvero manifestazioni che oggi descriveremmo come
dissociazione da stress[20]. Ricordiamo che Janet fornì la prima teoria
della dissociazione, secondo una patogenesi perfettamente coerente con le più
avanzate conoscenze di neurofisiologia dell’epoca.
Lo studio
delle nevrosi di guerra e dello Shell Shock riconosce una causa acuta
alle amnesie sul campo di battaglia, ma analizza anche il perdurare dei
sintomi, spesso considerato un effetto di affaticamento del sistema nervoso.
Infatti, Mott ed altri introducono la categoria nosografica della Combat Fatigue o affaticamento da combattimento[21].
Kardiner e
Spiegel (1930-38) interpretano i disturbi presentati a distanza di tempo dai
veterani della I Guerra Mondiale come il “perdurare della rottura delle
funzioni egoiche”[22] espresse in una psiconevrosi, negando di fatto
l’esistenza di patologia cronica da stress.
Sargent e Slater (1941) studiano le sindromi
amnesiche da guerra; Torrie studia la patologia
psicosomatica da stress. Nel 1945 Grinkel e Spiegel, che avevano introdotto
la definizione di Combat Neuroses,
pubblicano un volume che rimarrà per decenni una pietra miliare nello studio
degli effetti psicologici delle esperienze ansiogene e degli eventi traumatici:
Men Under Stress[23]. La focalizzazione sull’eccesso di adrenalina
all’origine di segni e sintomi porta gli autori a suggerire nei casi più gravi
la rimozione chirurgica delle ghiandole surrenaliche.
La prima
descrizione esaustiva di sindrome da
stress cronico si attribuisce ad Eitinger che, in uno studio condotto dal
1948 al 1965 sui sopravvissuti dei campi di concentramento nazisti, definisce
la Concentration Camp Syndrome[24].
Le
difficoltà nello sviluppo di una nosografia di riferimento per la diagnosi dei
disturbi da stress in assenza di precisi
elementi di patogenesi dei sintomi sono riflesse nel Manuale Diagnostico e
Statistico dell’American Psychiatric
Association (DSM) che, nella prima edizione del 1952, includeva la gross stress reaction – probabilmente
sotto l’influenza della casistica legata agli eventi bellici – mentre nella
seconda edizione del 1968 non riportava più questa diagnosi. Ma le
problematiche legate alla sintomatologia post-traumatica ritornarono di
attualità con lo studio dei reduci dalla guerra del Vietnam. Osservando questi
pazienti, Lawrence Kolb descrisse la startle
response, consistente nel sussultare per comuni suoni e rumori ambientali,
e la attribuì agli elevati tassi di noradrenalina presenti nei reduci afflitti
da una sintomatologia cronica. In questo periodo sono state elaborate le
principali teorie dello stress: la residual stress theory, la stress sensitization theory e la stress inoculation theory.
Nel suo influente
lavoro, Charles Figley (1978) sostenne che lo stress della guerra fosse in grado di determinare psicopatologia da
stress virtualmente in ogni persona
esposta, senza la necessità di una personalità premorbosa[25]. In questa temperie psicopatologica, nel 1980 si
introdusse nel DSM III il PTSD (Post
Traumatic Stress Disorder) quale disturbo indipendente nelle due varietà, acuto e cronico.
Nei primi
anni la diagnosi era posta raramente, anche per la definizione di trauma
inclusa nel “Criterio A”: “Evento al di là del normale spettro dell’esperienza
umana”. Nelle versioni successive si corregge questo limite: “Evento con
minaccia per la vita od altro (evento) significativo accompagnato da estrema
paura, orrore o sconforto”[26].
Una parte
considerevole delle conoscenze cliniche ed epidemiologiche sul PTSD di cui oggi
possiamo disporre si devono agli studi di Richard Mollica, tra i fondatori nel
1981 dell’Harvard Program in Refugee
Trauma, e dei gruppi di psichiatri che fanno capo alla sua scuola.
Fondamentale il contributo derivato dallo studio nel più grande campo di
rifugiati cambogiani nel 1988.
Nel 1994
fu introdotto, come parte del DSM IV, l’Acute
Stress Disorder (ASD) che, a differenza del PTSD, prevede una durata della
sindrome inferiore a un mese.
Il riferimento
nosografico ha facilitato lo studio degli effetti sull’encefalo dello stato di
attivazione da stress di lungo
periodo nella nostra specie, con il lavoro di Bremner e colleghi che ha
inaugurato un metodo basato sull’osservazione mediante risonanza magnetica
nucleare (RMN), divenuto poi un approccio standard. Il team dello psichiatra americano confrontò un gruppo di veterani
affetti da PTSD con un gruppo di controllo equivalente, rilevando che le
persone affette dal disturbo presentavano in media un volume dell’ippocampo di
destra inferiore dell’8%, con un deficit di memoria direttamente proporzionale
alla perdita di tessuto nervoso ippocampale. Lo studio, condotto nel 1995,
documentò per la prima volta un danno da stress
nel cervello umano.
Negli anni
seguenti ha progressivamente preso forma la ricerca contemporanea sulla
neuropatologia associata al PTSD.
(Fenster R. J., et al. Brain circuit
dysfunction in post-traumatic stress disorder: from mouse to man. Nature Reviews Neuroscience - Epub ahead of print doi:
10.1038/s41583-018-0039-7, 2018).
La provenienza degli autori è la seguente:
Division of Depression and Anxiety Disorders, McLean Hospital Department of
Psychiatry, Harvard Medical School, Belmont, Massachusetts (USA).
Accanto
all’episodica efficacia di alcune terapie, è documentata per il PTSD
l’esistenza di una percentuale elevata di casi che non trova giovamento con i
trattamenti standard o va incontro a remissioni solo parziali e temporanee dei
sintomi più invalidanti, di fatto entrando in una dimensione cronica dello
stato di alterazione dei sistemi neuroendocrini e, più in generale, della
fisiologia dell’organismo. Si giustifica, pertanto, l’intensità degli studi
sulla neuropatologia del disturbo e sui vari aspetti della sua espressione
clinica. Infatti, al di là di propagandate e indimostrate soluzioni per tutti i
disturbi d’ansia e da stress da parte
di professionisti ed istituti che si autopromuovono come specializzati in
questi trattamenti, la realtà è che gli psichiatri attendono, come sottolineano
Robert J. Fenster e colleghi, nuovi approcci di
intervento, trattamento e prevenzione.
Come si
legge nell’articolo qui recensito, la ricerca negli ultimi anni ha rapidamente
sviluppato una maggiore conoscenza dei circuiti
cerebrali implicati nella fisiopatologia del PTSD, consentendo un progresso
nella comprensione delle basi neuropatologiche della sindrome. Tale risultato è
stato possibile grazie a innovazioni tecnologiche che hanno consentito
l’osservazione e la perturbazione di macrocircuiti e
microcircuiti ritenuti essenziali per la produzione dei sintomi caratteristici
e delle manifestazioni cliniche associate.
La più
dettagliata conoscenza delle basi neurobiologiche di questo invalidante
disturbo – per i cui dettagli si rinvia alla lettura del testo integrale della
rassegna – ha consentito di acquisire elementi utili per una migliore
comprensione clinica (translational knowledge) del PTSD. Infatti, tali
studi hanno fornito nuove nozioni e dati circa i meccanismi del rischio e della
resistenza e stanno aprendo nuove vie per le tanto attese scoperte che potranno
mutare radicalmente la terapia, permettendo di giungere ad elevati standard di
efficacia per la massima parte dei casi, se non per tutte le persone affette.
L’autore della
nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla
lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono
nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella
pagina “CERCA”).
Giovanni
Rossi
BM&L-15 settembre
2018
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registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in
data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione
scientifica e culturale non-profit.
[1] Gli studi classici includevano
reduci della II Guerra Mondiale, della Guerra del Vietnam, della Guerra del
Golfo, ecc. Tra i primi studi di vasta scala su civili vi furono quelli
condotti da Richard Mollica e colleghi di Harvard sui rifugiati cambogiani. In
precedenza, sono stati pubblicati in genere singoli casi di superstiti di
disastri ferroviari o altre calamità.
[2] I cenni storici e le nozioni
sulla fisiologia dello stress esposti
da qui in avanti sono tratti da G. Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), Dipartimento di
Neuroscienze, Università Federico II, Napoli 2005.
[3] Resa in italiano con “reazione di attacco o fuga”
(lett.: lotta o fuga).
[4] G. Perrella, op. cit., p. 4.
[5] G. Perrella, op. cit., p. 5.
Cfr. W. B. Cannon, The James-Lange theory of emotions: A critical reappraisal
and an alternative theory. American
Journal of Psychology 39, 106-124,
1927.
[6] Mai completamente assimilato
nella cultura generale, questo principio consente di equiparare il malessere
soggettivo (illness) che accompagna le malattie psicogene a quello della
patologia ad etiologia organica.
[7] G. Perrella, op. cit., p. 6. La
citazione di Walter Cannon è ripresa da A. Calogero e M. C. Serra, Lo Stress, p. 12, Quaderni di Patologia Generale, Piccin, Padova 1999.
[8] J. W. Papez, A proposed
mechanism of emotion. American Medical Association
Archives of Neurology and Psychiatry
38,725-743, 1937.
[9] H. Kluver & P. C. Bucy, “Psychic blindness” and other symptoms following bilateral temporal lobectomy in rhesus monkeys. American Journal of Psychiatry
119, 352-353, 1937. Cit. in G.
Perrella, op. cit., p. 8.
[10] P. D. McLean, Psychosomatic disease and the visceral brain. Recent developments bearing on the Papez
Theory of Emotion. Psychosomatic Medicine 11, 338-353, 1949.
[11] Cfr. A. Calogero e M. C. Serra,
op. cit., p. 13; H. Selye, The general adaptation syndrome and the diseases adaptation. Journal
of Clinical Endocrinology
6, 117-196, 1946.
[12] G. Perrella, op. cit., p. 11.
[13] G. Perrella, op. cit., p. 11. Si
descrivono una risposta centrale ed
una periferica. La centrale è caratterizzata dall’aumento
della vigilanza nello stato di veglia e dall’allerta, fino all’allarme vero e
proprio, con accentuazione dell’attenzione scopica,
perlustrativa ed esplorativa, associato ad incremento della capacità recettiva
con eretismo estesico; inoltre, si ha un
miglioramento della memoria impressiva. La risposta periferica include le modificazioni fisiologiche neurovegetative
che interessano i sistemi endocrino, respiratorio, cardio-circolatorio, gastroenterico,
tegumentale, con le azioni visceroeffettrici ghiandolari, incluse quelle
interessanti le ghiandole sudoripare (sudorazione
adrenergica).
[14] Ricordato anche nella nostra
rubrica “Alfabeta” e citato in
numerose note, è riportato ne Il locus coeruleus rivisitato in “Note e Notizie” del 9 aprile 2016.
[15] Cfr. G. Perrella, op. cit., pp.
13-14.
[16] J. M. Da Costa, On irritable
heart: A clinical study of a form
of functional cardiac disorder and its consequences. American
Journal of Medical Science 161, 17-52, 1871.
[17] J. D. Bremner, Does Stress Damage
The Brain?, p. 71, Norton, New York 2002.
[18] G. Perrella, op. cit., p.14.
[19] G. Perrella, op. cit., p.15.
[20] G. Perrella, op. cit., p.17.
[21] F. W. Mott,
War Neuroses
and Shell Shock. Oxford University Press, London 1919.
[22] Cit. in Lawrence C. Kolb, Psichiatria
Clinica, p. 704, Idelson, Napoli 1979.
[23] Grinkel
R. R. & Spiegel J. P., Men Under Stress. Blackiston,
Philadelphia 1945.
[24] G. Perrella, op. cit., p.19.
[25] Charles Figley
cit. in G. Perrella, op. cit., p.26.
[26] G. Perrella, op. cit., p.28.